Qualcuno mi ha di recente chiesto come si fa ad “inventare” una ricetta. Non so rispondere a questa domanda con una formula universale, anche se la mia anima schiettamente scientifica adorerebbe farlo.
Invece bisogna ammettere che non si è mai riusciti (non che io sappia almeno) a dare una rigorosa inquadratura ad un’azione profondamente umana come l’atto creativo.
Nelle massime espressioni dell’arte troviamo geniali uomini e donne (noti o no) che danno vita a opere immortali. Che so, i disegni rupestri, i bassorilievi gotici, il Cenacolo, la Divina Commedia, i confetti con la cioccolata in mezzo (mmh!).
Oggetti universalmente noti e che ci fanno dire:
“Sì, io sono un essere umano, e sono orgoglioso di esserlo perché è l’umanità che ha saputo creare questi miracoli”.
Poi ci sono le persone comuni, come lo sono io e come lo sono molti di voi che state leggendo. Noi non ci consideriamo dei Brunelleschi, eppure nei nostri lavori quotidiani impieghiamo la nostra intelligenza creativa.
Non parlo solo di noi artigiani, che addirittura concretizziamo le nostre idee, ma anche di chi fa lavoro d’ufficio, degli operai che aggiustano le linee elettriche, del centralinista che ci assilla con le nuove offerte “lucegasseskài”.
Tutti concorriamo a creare quello che poi è quotidianità, l’ordinario, senza il quale non potrebbe esistere nemmeno lo straordinario.
Noi artigiani, tutti, abbiamo la capacità e possibilità di pensare, studiare, progettare e infine realizzare ciò che costituisce il nostro lavoro.
Di queste cose poi non esiste un aspetto più o meno importante.
Chiedete allo scultore se è più importante pensare al soggetto o se è più importante avere sottomano il legno giusto, o lo scalpello adatto. Vi guarderà con uno sguardo che significa “ma me lo sta chiedendo sul serio?” e poi dirà: tutto.
E ora finalmente passo a parlare della creatività nel mio lavoro.
La mia versione dei ben più celebri “baci”, pronti per il tuffo nel cioccolato fondente che li rivestirà Le idee vengono per vari motivi: il più banale modo di farsi venire un’idea è “scopiazzare” quelle altrui. Tutti lo abbiamo fatto: non credo esistano davvero idee originali, ed è giusto così, altrimenti saremmo ancora fermi al primo esperimento di carro con le ruote piene. Se non fosse arrivato un artigiano che si è pensato di creare le ruote con i raggi, oggi non avremmo certo i carrelli che permettono agli aerei di decollare.
Certo, dà un po’ di fastidio se qualcuno ci copia un’idea e lo fa pure male. O lo fa spacciandola per la “sua” grande scoperta. C’è modo e modo, insomma.
Un altro modo è partire dagli ingredienti di cui disponiamo e cercare di accostarli, basandosi ora sul gusto personale ora sulla tradizione. Così faccio quando creo ricette che vogliono radicarsi nel mio territorio. Per esempio la pralina che chiamo “profumi di bosco” racchiude prodotti boschivi di montagna: miele, ginepro e nocciola. Per crearla ho prima raggruppato gli ingredienti che il mio territorio offriva: noci, latte di malga e derivati, nocciole, erbe spontanee, miele, cereali locali, mele…
Poi via via tramite prove di assaggio, di durabilità, di conservazione, e anche prove su cavie volontarie (chissà perché ci sono sempre persone disposte ad assaggiare cioccolatini!) ho depennato alcuni accostamenti, fino ad arrivare alla ricetta finale, che è quella che vi ho detto poco fa: cioccolato al latte, miele, nocciola e ginepro.
È stato un processo piuttosto lungo, che ha previsto un discreto “spreco” di materia prima di qualità più che ottima; in questo specifico caso ho impiegato più di un mese per dichiararmi soddisfatta e scrivere nel mio ricettario segretissimo le percentuali dei vari ingredienti.
Un terzo modo che adotto saltuariamente è quello che più si avvicina all’atto artistico: improvvisamente, senza motivi apparenti, mi appare un’immagine, o un concetto, in testa. Diventa un chiodo fisso. Sapete, come quando passate intere giornate a canticchiare “Jingle Bell” (e magari è giugno).
Allora, come suggeriscono gli psicologi, inizio a mettere sulla carta questa idea fissa, in modo da allontanarla dalla mia psiche e ritrovare la quiete.
Dopo averla messa lì, però, inizio a scarabocchiare intorno le sensazioni, colori, frasi, sapori che quell’idea mi suggerisce.
Ecco l’idea che sto elaborando ormai da tempo: “blu notte”.
Questo è quello che avevo scritto a questo riguardo, prima di passare al concreto.
E credetemi, per estrapolare tutto ciò che mi evoca un’idea devo tornare e ritornare sull’argomento davvero tante volte.
Arriva poi un momento in cui capisco che più di così non procedo, allora inizio ad associare ingredienti alle varie parole.
Ad esempio, “fresco” mi suggerisce il basilico, la fragola, la menta, il fruttosio.
Quando tutte le parole hanno il loro elenco di ingredienti associati, constato che alcuni tra loro proprio non funzionano, e qui scatta la lista dei “pro e contro”, ci sono battaglie epiche che vedono sempre, come finale, il depennamento di un ingrediente. RIP.
Quanto segue è l’iter che in ogni caso seguo, sia che abbia “scopiazzato” l’idea (vedi “Baci”) sia che sia totalmente farina del mio sacco.
Ebbene, già il decidere quale cioccolato sia il migliore per accogliere gli ingredienti e permettere loro di esprimersi al meglio, non è per niente facile.
Anche dire “fondente è meglio” è insufficiente: sì, fondente, ma quale? Con quanta percentuale di zuccheri? E meglio un fondente neutro o un cioccolato di carattere? (come dire, un caffè “arabica” o un “robusto”?) perché se l’ingrediente ha un carattere forte e dominante posso pensare di associarlo a un compagno dal carattere forte, se invece ho a che fare con una timidissima primula essiccata, rischierebbe di soccombere vicino a un cioccolato dalle note “predominanti di tabacco e caffé”, se così riesco a spiegarmi.
Superato questo scoglio, si crea la pralina zero. In genere ne faccio una dozzina, di cui immancabilmente una si sacrifica sull’altare della fretta. Un paio le assaggio appena prodotte, annotando le sensazioni che mi danno; un altro paio le assaggio il giorno seguente, e annoto se ho notato cambiamenti, un altro paio dopo una settimana (se gli ingredienti e la loro deperibilità consentono una durata prolungata); annoto tutto, e alla fine delle prove personali, se queste mi hanno soddisfatto, inizio con le “cavie”.
Qui mi siete indispensabili voi: clienti fiduciosi o amici che si autopropongono: non mancano mai le “cavie” umane.
In questa fase faccio assaggiare magari due cioccolatini, con una minuscola differenza uno dall’altro.
Ad esempio, sempre a proposito della pralina “profumi di bosco”, per la quale non avevo ancora le idee chiare di come inserire il miele, in una versione lo ho inserito come una goccia nel mezzo del ripieno, in un’altra lo ho amalgamato nell’intera farcitura.
Questo non lo dicevo, ai miei assaggiatori, ovviamente, per non falsare il risultato.
Un po’ una test scientifico, anche se un vero ricercatore mi rimprovererebbe di non averla fatta “in doppio cieco”.
Le facevo assaggiare entrambe, aspettando un po’ tra una e l’altra; li sfidavo poi a indovinare gli ingredienti. Più di qualcuno non ha saputo identificare il miele in una delle due ipotesi, mentre nell’altra lo indicavano subito.
Una volta che ho definito davvero “the winner is” passo alla prova della durabilità. Questo è un affare noioso, ma che è necessario (soprattutto per evitare di intossicarvi).
Non si tratta solamente della analisi di laboratorio per la presenza di batteri patogeni, ma anche di durata del “guscio” del cioccolatino, o di mantenimento della consistenza della crema interna; per esempio ho notato che quando la farcitura è molto alcolica il guscio di cioccolato esterno tende a fessurarsi più facilmente. Il motivo, del resto, è chiaro per chi è del settore, ma finché non si prova, non si sa, lo si è solo studiato. Che sono due cose molto diverse, per me.
Quando finalmente la ricetta ha superato tutte queste fasi è arrivato il momento di inserirlo nel mio ricettario super-segreto.
In esso annoto chiaramente gli ingredienti, la loro percentuale nella pralina totale e tutti i passaggi per abbinarli e creare il prodotto che poi vi presento.
Ora spero capirete perché, generalmente, sono molto orgogliosa dei miei cioccolatini; non ce n’è uno che io non abbia accompagnato passo passo attraverso questo difficile percorso verso l’eccellenza.
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